Una ferita che non si chiude e che anzi sanguina a ogni acquazzone e temporale estivo.

Una ferita che non si chiude e che anzi sanguina a ogni acquazzone e temporale estivo.

Esattamente due anni fa Cancia piangeva due morti, mentre della fanghiglia rossa copriva strade e case. Badili, stivali, ruspe facevano da contorno a una cartolina surreale. Un’atmosfera sospesa al cospetto di un Antelao quasi rabbioso. Poi il freddo, dentro e fuori. Come se l’estate si fosse spenta in un colpo.

Giovanna Nina Belfi e Adriano Zanetti, madre e figlio di 86 e 63 anni, stavano dormendo nella loro abitazione al piano terra quando un’onda di fango li ha soffocati. Proprio la donna era solita ripetere di aver paura di quella frana, che già si era mossa altre volte nell’arco di soli 15 anni.

Di quella frana oggi restano tanti perchè e troppe polemiche, a cominciare dai mancati risarcimenti e dalla mancanza di una soluzione definitva e sicura. Troppe lentezze, troppa burocrazia, lamentano i cittadini del Comitato. Forse troppa insensbilità si potrebbe aggiungere.

E la loro battaglia va avanti. Lo si legge nel sito internet dedicato alla tragedia e ai suoi svilippi. Qui il comitato si presenta e racconta a modo suo il rapporto fra uomo e natura

“Nel dopoguerra è arrivata la scienza ed il potere economico, gli ingegneri di Mattei avevano imbrigliato la montagna, ci siamo fidati, abbiamo rioccupato le terre lasciate dai nostri avi”, raccontano dal Comitato. “Le istituzioni si sono occupate per decenni della nostra “aga Rosa” (acqua rossa).

Quello che abbiamo sempre saputo dai nostri padri: – è l’acqua del bus del diau la grande minaccia, non le ghiaie che fluiscono da forcella salvella; non è mai stato del tutto considerato.

Dopo 141 anni dobbiamo piangere altri morti.

Siamo un piccolo paese di montagna che ha una storia e un’anima millenaria, un pugno di gente caparbia che vuole essere ascoltata e che vuole in questo luogo continuare a vivere ed operare in accettabile sicurezza”. (dal sito www.franadicancia.info)

Una sicurezza che – a due anni dal piccolo Vajont – ancora non c’è,

Cristian Arboit